Di Maura Canalis ed Enzo Novara
Colpisce ancora una volta, anche se in fondo non sorprende, che la scuola sia rimasta ai margini dell’informazione che si è riversata su tutti noi in questi mesi di diffusione del coronavirus e di forzata reclusione.
La scuola, nella fase 1, non è quasi mai comparsa nei discorsi dei politici e nell’informazione, continua e monotematica. Tutt’al più abbiamo sentito le solite lezioni didattico-pedagogiche di qualche commentatore generalista o di qualche istituto, che prevedevano con entusiasmo, dopo la prova generale della Didattica a Distanza (DAD), una conversione (finalmente!) della Scuola italiana alle nuove mirabolanti opportunità offerte dalle tecnologie informatiche. In alternativa, si sono udite le preoccupazioni, spesso anche sorrette da petizioni, di famiglie che invocavano il ritorno a scuola per motivi, pur comprensibili, di baby-sitting: poco importa se questa, forse, non è la funzione principale dell’istituzione o se, dopo il rientro, l’epidemia, come alcuni sostengono, ripartirà, anche perché le misure di sicurezza e di distanziamento sociale in un edificio scolastico costituiscono un problema non del tutto secondario, ma evidentemente non chiaro se non agli addetti ai lavori. Pazienza: sappiamo bene che le capacità previsionali sono scarsamente diffuse e presentano molti limiti, e forse questa è la lezione principale che si dovrebbe trarre dalla vicenda che tutti stiamo vivendo.
La Scuola è poi faticosamente ricomparsa nella fase 2, naturalmente al posto che le compete: dopo le industrie, i bar, i ristoranti, le spiagge, i parrucchieri, le estetiste; in coda, solo le piscine e le palestre. Naturalmente non c’è nulla da eccepire sul fatto che in gioco ci sia la sopravvivenza economica del Paese e, accanto a questo aspetto centrale, il desiderio, naturale, di “tornare a vivere”, se non fosse che, ancora una volta, accanto al bisogno/dovere di lavorare e al diritto di divertirsi, non viene mai citata la necessità/priorità di istruire e formare i giovani, ma ben sappiamo che questo non è un obiettivo “strategico” del nostro Paese. Ed è proprio sulla scia di questo atteggiamento che si è giunti infine a dover affrontare la fastidiosa questione degli esami finali del primo e secondo ciclo: già, perché, sembrava che ce ne fossimo dimenticati, tutti gli anni tra giugno e luglio nella Scuola italiana gli studenti devono affrontare questo appuntamento.
I tempi con i quali il Ministero ha affrontato la questione emergenza sono stati, per così dire, “irregolari”, contrassegnati da lunghi e misteriosi silenzi e da improvvise accelerazioni, e la mancanza di linearità è stata la cifra costante della comunicazione, istituzionale e non (ricordiamo che importanti informazioni compaiono in rete prima che nelle ordinanze ministeriali).
L’elenco dei vari snodi sarebbe lungo; limitiamoci pertanto a ricostruirli per sommi capi. Dopo aver comunicato nella fase iniziale sostanzialmente che quest’anno si trattava di “salvare il salvabile”, di mettere in campo qualche strumento per rimanere vicini agli allievi e per assicurare loro un minimo di continuità didattica, il Ministero ha poi rapidamente reso obbligatoria la DAD, senza tenere in alcun conto la realtà che scuole e famiglie affrontano nel quotidiano, anche rispetto alla disponibilità dei mezzi; ha allora rimediato destinando fondi all’acquisto di pc e tablet, che però, in mancanza di una connessione internet o della copertura di rete, in molte case sono rimasti nell’imballaggio nel quale erano stati recapitati.
In un altro passaggio, dopo aver improvvidamente rassicurato gli studenti sul fatto che, data l’eccezionalità della situazione, non ci sarebbero state “bocciature” ma solo debiti, in realtà senza sospensione di giudizio, da saldare a settembre (che, in ogni caso, saranno insufficienze effettive in pagella), ha perentoriamente affermato che la Scuola è una cosa seria e che non è assolutamente vero che tutti saranno promossi, anzi! Cosa successivamente smentita dalla normativa, visto che le condizioni per una non ammissione alla classe successiva toccano una percentuale irrisoria della popolazione scolastica e non hanno assolutamente a che fare con l’acquisizione di conoscenze, competenze, abilità (parole-chiave quasi totemiche, assurte a veri mantra del sistema istruzione), che, dopo aver riempito pomposamente e vanamente per decenni pagine e discorsi, verranno ora palesemente e oltraggiosamente ignorate.
D’altra parte, come sarebbe potuto essere altrimenti? Si è forse sviluppata una riflessione seria su che cosa significhi, nel quadro della DAD, fare didattica e, soprattutto, valutare? Tema delicatissimo, complesso e problematico per chi su questo aspetto si interroga e studia da sempre, al quale hanno dato risposte semplicistiche e francamente risibili pochi colleghi dilettanti che si sono illusi di disporre di ricette pronto uso da dispensare ai più.
La preoccupazione è stata quella di cercare di ricoprire con parole che risuonassero convincenti la mancanza di una riflessione sostanziale e seria anche sul significato delle parole stesse, in altri termini si è trattato di una malcelata operazione di retorica. Si sarebbe potuto più onestamente dire che in una situazione emergenziale grave la DAD avrebbe garantito, con i vantaggi e i limiti che porta con sé, il diritto allo studio dei ragazzi e il dovere alla prestazione professionale dei docenti attraverso lo smart- working.
Invece, sulla mancanza di chiarezza, si è permesso che si inserissero i cantori di una nuova didattica, giunta finalmente a modernizzare la scuola italiana – che deve essere svecchiata nei metodi e nei contenuti (chissà perché, di tradizione millenaria), ma anche nei docenti, da rottamare, come è accaduto alle lavagne di ardesia con le LIM -, a ridurre l’interazione degli studenti tra loro e tra studenti e docenti, sostituendola con quella discente-macchina: un’idea mostruosa, dal punto di vista delle relazioni umane, della corporeità, dei processi di apprendimento (le stesse neuroscienze ce ne ricordano la complessità), della finalità stessa della scuola, che deve educare, in primo luogo, al pensiero critico, che meramente esecutivo proprio non è.
Ma veniamo ora all’esame di Stato.
Esso prevede una serie di passaggi piuttosto impegnativi: prova sulle materie caratterizzanti, prova di italiano, PCTO[1] (ebbene sì, non può mancare), Cittadinanza e Costituzione, colloquio inter/pluridisciplinare; il tutto, inevitabilmente, orale e da affrontare indicativamente in sessanta minuti. I tempi previsti rappresentano un monumento all’impossibile: è evidente agli occhi di qualsiasi insegnante di scuola secondaria, ma anche ex studente, che abbia in anni recenti sostenuto l’esame di Stato, che in un’ora non è assolutamente realizzabile una road map di questo genere.
Aggiungiamo che l’esame verrà fatto in presenza, e questo è un bene, se si tratta di consentire ai ragazzi di affrontare una prova che ha, e forse deve continuare ad avere, il significato di un rito di passaggio. Meglio ancora se questa modalità costituisce un primo passo verso un ritorno alla normalità della scuola in presenza (ma sul rientro nelle aule nulla di certo si sa né questa è la sede più opportuna per addentrarsi in un tema così intricato e sfaccettato).
La ragione dell’esame in presenza risiede però soprattutto nella serietà della valutazione che esso solo può garantire. Ma non si è lodata, da parte dei suoi sostenitori, la DAD anche per la mirabolante oggettività delle sue valutazioni? E allora perché cercare una prova finale “davvero” affidabile? Qui salta il principio di non contraddizione: o la valutazione mediante DAD è sicura, e quindi forse, nelle condizioni di rischio attuali, specialmente in alcune Regioni, sarebbe più saggio prevedere un’altra modalità di chiusura del ciclo di studi (si sono sprecate, in modo totalmente inopportuno le metafore sulla “guerra”: ebbene, durante la guerra l’esame di Maturità venne sostituito da uno scrutinio finale); oppure, la valutazione mediante DAD non è così attendibile, se non a prezzo di molti correttivi, tanto sale in zucca ed esperienza, ed è stata una grande operazione di ipocrisia didattica (e allora ci saremmo potuti risparmiare almeno le ossessive indicazioni precettistiche dei colleghi di cui sopra).
Consideriamo poi le misure per la sicurezza. Dopo aver comunicato quali saranno le regole a cui attenersi, e quindi, tra le altre, il dovere di usare la mascherina, dal Ministero si è voluto dichiarare, con giovanilistica benevolenza, che comunque lo studente potrà anche non utilizzarla. Allora: queste misure hanno una reale necessità? sono effettivamente efficaci? e la salute dei docenti, lavoratori della scuola e per di più mediamente in età a rischio complicazioni per coronavirus, deve o non deve essere tutelata?
Altra contraddizione: o è davvero possibile restare chiusi 7/8 ore in un locale con pochi metri quadrati a testa, ma allora questa malattia non è pericolosa e gli scenari catastrofi(sti)ci delineati da alcuni virologi non sono attendibili, oppure lo è, e allora forse sarebbe stato meglio fare, come nella fase precedente dell’anno scolastico, anche l’esame di Stato “da remoto”. E questo non solo per le categorie “a rischio”, ma per tutti, a partire dallo studente sano; avremmo così evitato lo spettacolo sconfortante della fuga individuale di commissari e presidenti.
Perché tante incongruenze? Le questioni complesse devono essere comprese e affrontate in quanto tali, richiedono procedure articolate, vanno incontro a esiti incerti e sono soggette all’errore, che va riconosciuto e corretto secondo un principio di verità e trasparenza; infine non sono semplificabili, perché, per citare Lucio Russo, i segmenti sono segmenti e non semplici bastoncini.
Maura Canalis, Enzo Novara
[1] I percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento (ex Alternanza Scuola Lavoro) che coinvolgono gli studenti di istituti tecnici e professionali e dei licei.